La comunicazione dello psicologo sui social: quali confini?

la comunicazione dello psicologo sui social

“Lo psicologo sui social: quali confini?” è una riflessione nata dal confronto con la collega e amica Dott.ssa Annalisa Dotelli, dell’Associazione Phlox Psicologia di Caorso (Piacenza)

Ciò che accade molto spesso a noi psicologi è di essere considerati un po’ “tuttologi”, fenomeno che si spiega facilmente, se teniamo conto che ci occupiamo di esseri umani e, di conseguenza, di tutti gli ambiti che li riguardano.

E anche se ciascuno di noi si indirizza verso una propria area di competenza specifica, resta vero che nel lungo percorso di esami, lavori e esperienze, capita spesso di studiare un po’ di tutto, interessarci e leggere sempre un po’ di tutto. Questo ci avvicina molto facilmente a quella linea di demarcazione che separa il terreno della competenza da quello del “delirio di onnipotenza”.

È il destino dello psicologo quello di vivere e combattere quotidianamente con l’ombra dell’onnipotenza, di  rivestire ogni suo pensiero di misura, rispetto, flessibilità, ascolto, al fine di restare sempre dalla parte giusta del confine.

Lo psicologo sui social

Le cose si fanno  più complesse, quando si scende nell’ambito della comunicazione online, dove viene a mancare il contatto uno a uno con un “paziente”, quel contatto che ci permette di conoscere a fondo la  sua storia e la sua complessità.

Facendo divulgazione online davanti a un pubblico vasto, con cui si ha necessariamente  solo un’interazione rapida, il rischio che la comunicazione si faccia eccessivamente aggressiva, direttiva, arrogante o anche molto superficiale è altissimo.

Questo, ovviamente, nonostante l’intenzione onorevole di trasmettere messaggi utili e positivi.

Lo psicologo sui social e la pragmatica della comunicazione umana

Come ricorda lo psicologo Paul Watzlawick nel secondo assioma della comunicazione, quando trasmettiamo un messaggio  siamo contemporaneamente  alle prese con due piani differenti, ma strettamente legati:

1) quello del contenuto (cosa dico) che è l’obiettivo fondamentale nella comunicazione: tutti noi scegliamo di seguire pagine il cui contenuto sia in linea coi i nostri interessi, bisogni e curiosità;

2) quello della relazione (come lo dico) che è il mezzo attraverso cui si cerca di attribuire il giusto significato al contenuto (una sorta  di metacomunicazione).

L’aspetto relazionale rappresenta quindi il contesto: aiuta a trovare un senso al messaggio che sarà decodificato in un modo  o nell’altro in base al tono di voce (ma anche alle scelta delle frasi e delle parole, se stiamo scrivendo) e alle espressioni o scelte stilistiche che utilizziamo.

Questi aspetti impattano fortemente sulle reazioni emotive del nostro interlocutore.

Lo psicologo sui social e l’intelligenza emotiva

Come ci spiega Daniel Goleman comprendere quale potrà essere l’impatto della nostra comunicazione sull’ascoltatore o sul lettore è una componente dell’intelligenza emotiva.

Per essere efficaci nelle relazioni è quindi fondamentale dedicare attenzione a questo aspetto sia quando si comunica di persona che quando lo si fa attraverso qualche “canale social”.

In particolare, quando ci rivolgiamo potenzialmente a tante persone diventa una questione di responsabilità sia come professionisti sanitari sia come “divulgatori” (in questa ultima parte vorremmo davvero rivolgerci a tutti coloro che “veicolano informazioni on line”),  quello di non dimenticarci del “livello della relazione”.

Una comunicazione morbida

A parità di contenuto, una comunicazione direttiva e categorica rischia di creare in chi ascolta o legge la sensazione di  essere sotto giudizio, sbagliato, in errore o, peggio ancora, inferiore.

Quando adottiamo lo  stile comunicativo del “salire in cattedra” o “sputare sentenze” tendiamo a dare l’idea di avere in tasca la verità assoluta, creando in chi ha un pensiero o un comportamento differenti da nostro la sensazione di essere in fallo.

Queste sensazioni , prettamente negative, non solo  non predispongono ad accogliere un messaggio  valido e potenzialmente utile, ma finiscono per creare l’effetto controproducente di far stare peggio chi invece avremmo voluto aiutare con qualche informazione valida.

Siamo abbastanza convinte che di verità assolute ce ne siano ben poche e che sarebbe molto più funzionale utilizzare un “linguaggio morbido” che suggerisca possibilità di cambiamento, piuttosto che veicolare giudizi.

Vi siete mai sentiti giudicati o sbagliati leggendo qualche post sui social? Quali sono state le vostre reazioni?

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